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JERSEY BOYS Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 giugno 2014
 
di Clint Eastwood, con John Lloyd Young, Vincent Piazza, Erich Bergen, Michael Lomenda, Christopher Walken (Stati Uniti, 2014)
 
Ma non era scomparso definitivamente, steso a mitragliate sull'asfalto, al termine dell'indimenticabile, umanissimo GRAN TORINO (2008), ultimo di una serie formidabile di tanti indomiti, ma progressivamente esausti e melanconici superoi ? L'attore, forse; non il grande Clint regista. Che, a 84 anni, riparte una volta ancora. Dopo avere osato avvicinare, con fortune alterne, l' inavvicinabile mito Nelson Mandela in INVICTUS (2009) e le paranoiche manipolazioni del capo dell'FBI in J. EDGAR (2011); ma creando un'opera ancora sorprendente, intima, quasi metafisica come HEREAFTER.

Che gli vada in modo divino o soltanto d'incanto, Clint Eastwood è comunque qualcuno al quale piace rimettersi sempre in questione. Un piacere che condivide con quello di fare musica, ascoltarla o, ancora più difficile, restituirla in immagini. Cosi lunga è stata la sua carriera dai tempi di Dirty Harry che quasi ci eravamo dimenticati di uno dei più grandi omaggi del cinema al jazz, al Charlie Parker di BIRD (1988); al blues tradizionale nel documentario PIANO BLUES (2003, o ancora al country di Nashville in HONKYTONK MAN. E di come in ogni suo film la musica sia accarezzata con infinita sensibilità e sottile significato (ricordate il ballo con Meryl Streep in I PONTI DI MADISON COUNTY ?).

Non meravigliamoci allora se, adattando una commedia musicale di Broadway comprensiva di gran parte degli attori oltre che dell'autore delle partizioni originali Bob Gaudio, Clint sembra infatuarsi improvvisamente di un gruppo degli Anni Sessanta. Del quale tanti orecchiano ancora certi hits come "Sherry", "Big Girls Don't Crye "Walk Like a Man"; ma ben pochi ricordano il nome, "The Four Seasons", spazzato nelle memorie dall'avvento dei Beatles e del pop-rock britannico. L'universo di Eastwood non è però quello dei biopic, delle biografie agiografiche e regolarmente accademiche. Certo, la sceneggiatura del film ripercorre il tragitto risaputo dell'artista proveniente dal fondo della classe sociale che giunge ad assaporare la voluttà della fama; prima di soffrirne l'usura, nella scalata al successo, nella riuscita della vita privata. JERSEY BOYS non è l'ennesima versione del Sogno americano, ma una di quelle confessioni, contenute nel pudore di un meraviglioso classicismo espressivo e permeato di humour e melanconia che appartiene soltanto al suo autore.

Sul filo della straordinaria voce in falsetto del capo gruppo Frankie Valli (il bravissimo John Lloyd Young) pare, all'inizio, di ritrovarsi dalle parti di QUEI BRAVI RAGAZZI di Scorsese: merito anche di Christopher Walken, che disegna un'irresistibile, tragicomica figura di Padrino, oltre che, come vedremo, d'insospettato ballerino. Ma ci accorgeremo che a sottolineare le alternanze agrodolci della storia, gli inevitabili litigi e malcelate gelosie, ricatti mafiosi e meschini intrighi, melodrammatiche scenate coniugali e tradizionali droga, sesso e alcol, Eastwood non tiene più di tanto. Piuttosto, gli è congeniale il tono di questa osservazione: sereno, pudico, deliziosamente sovrano e nemmeno nostalgico, con quella raffinata e spassosa eleganza dei dialoghi.

Nel delicato fulgore della sua resa cromatica e scenografica, ma proiettato in tempi di scampagnate al grotto, JERSEY BOYS arrischia di apparire come sorta di extraterrestre generazionale. Ultimo scampolo di un modo di far cinema regale che può anche permettersi qualche lunghezza e scompenso in sceneggiatura, il film verrà ricordato non fosse che per la sua strepitosa sequenza finale: quando tutti i protagonisti, importanti o minori, si ritrovano in scena (improvvisata nel cortile privato di Clint negli studios della Warner) per un ballo finale. Un happening ritmico e coreografico esplosivo, calcolato al millimetro. Di quelli che non rivedremo più.


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